15 APR 2019 · Il tema del rapporto tra comunicazione digitale e democrazia, o meglio il quesito se le nuove autostrade aperte dalla comunicazione via internet possano in qualche modo incidere sul sistema politico è diventato nel nostro paese di stretta attualità per l’emergere di movimenti politici organizzati che fanno di quel rapporto la loro ragione di forza: essi partono dal presupposto che la rappresentanza politica, fondamentale negli ordinamenti democratici, possa ritenersi oramai superata in quanto dimostratasi insufficiente a rappresentare i problemi e la ricerca di soluzioni dei gruppi sociali per essere sostituita da una democrazia diretta in cui i cittadini elettori esprimono direttamente attraverso la comunicazione digitale la loro volontà su grandi o piccoli problemi sociali e sulle soluzioni ritenute più opportune.
Troppo semplice per essere vero, direbbe qualcuno, ma la risposta sarebbe chiaramente insufficiente rispetto alla mobilitazione di studiosi (o sedicenti tali) progetti di legge in discussione in un Parlamento con la presentazione di progetti di legge variamente articolati ma pur sempre con l’obiettivo comune di minare dalle fondamenta il rapporto di rappresentanza politica, fino a vedere sullo sfondo (Casaleggio) la scomparsa delle assemblee rappresentative in nome del “fai da te” anche a proposito del governo della società.
Quello che all’inizio sembrava solo un paradosso si sta così dimostrando un concreto atto ostile nei confronti delle istituzioni democratiche, nate sulla scia della rivoluzione francese del 1789, anche se più lontane nel tempo sono le origini della rappresentazione politica.
Un primo esempio di essa si ritrova nell’incarico affidato a nobili e cavalieri (leggi ricchi commercianti) inglesi di rappresentare, nel 1295 ad Edoardo I Re d’Inghilterra , le loro ragioni nel Parlamento che fu per la prima volta convocato in particolare a proposito dell’applicazione delle nuove regole di tassazione stabilite dal Re stesso e, uditi i rappresentanti dei cavalieri, modificate con le emanazioni (1297) dello Statuto “De tallagio non concedendo”.
Naturalmente sarebbe antistorico parlare della rappresentanza politica nei termini di più di sei secoli fa: certo è che a quel momento si affermò nell’età moderna il concetto che la volontà di tutti potesse essere espressa da alcuni, prescelti dagli interessati. Storicamente vulnerabili sono i criteri di selezione, i poteri dei rappresentanti, i loro obblighi, ma è certo che su quel rapporto si sono costruiti i regimi democratici, venuti meno quando qualcuno, si chiamasse Napoleone o Hitler, ha ritenuto e fatto ritenere, con le buone o con le cattive maniere, di essere lui stesso in grado di rappresentare tutti gli elettori senza aver ricevuto alcuno specifico mandato in proposito.
Altro e diverso problema è quello del rapporto tra rappresentante e rappresentati: in quale limite il primo può decidere autonomamente nella assemblea rappresentativa senza raccordarsi su ciascuna questione con i suoi elettori? Anche questo è un problema vecchio: la soluzione più estremista, diritto di revoca da parte degli elettori che affermano traditi i loro intenti espressi al momento del voto, è soluzione adottata in passato (in alcune delle Costituzioni dell’Unione Sovietica dopo la Rivoluzione d’Ottobre ed in quelle di alcuni piccolo stati degli U.S.A.). Soluzioni e tentativi completamente abbandonati soprattutto per la difficoltà di verificare quando e se effettivamente il rapporto fiduciario fosse stato violato.
Forse è opportuno sottolineare che la rappresentanza è definita politica proprio per distinguerla da quella giuridica: quest’ultima può essere accompagnata dal mandato ad agire non solo “in nome” ma anche “per conto” e nel caso di comportamenti non condivisi e lesivi per il rappresentato, può dar luogo al risarcimento dei danni subiti. La rappresentanza politica è invece sempre una rappresentanza con mandato: quest’ultimo però non può essere “imperativo”, segnare cioè minutamente le regole di comportamento politico del rappresentante: il paletto di riferimento è il programma elettorale e la possibilità data all’elettore, nel caso ritenga che gli impegni assunti al momento dell’elezione non siano stati rispettati, di non rieleggere il proprio rappresentante o, più generalmente, nell’esprimere il proprio voto a favore di un altro candidato o di una lista avente un programma diverso.
La Costituzione italiana è fondata su questi principi, stabilendo (artt. 56 e 57) l’elettività delle due camere del Parlamento, le regole fondamentali sulla loro composizione (artt. 65 e 66) e che “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.
Tutto chiaro dunque, fino a quando non si è iniziato a mettere tutto in discussione in nome di una “democrazia diretta” (per la quale esiste in questo Governo anche un Ministro ad hoc) e che dovrebbe essere caratterizzata sostanzialmente da una riduzione del numero dei parlamentari, dalla introduzione del vincolo di mandato e dalla possibilità per gli elettori di proporre leggi che il Parlamento sarebbe vincolato ad esaminare entro termini prestabiliti e di indire un referendum sul testo da esso approvato, nel caso in cui questo sia difforme da quello proposto dagli elettori.
In due parole: la riforma proposta riduce, attraverso la riduzione del numero dei parlamentari la rappresentatività del Parlamento, trasforma il corpo elettorale in corpo direttamente legiferante che può, con il referendum, prevalere sulla volontà espressa dal Parlamento. Concede inoltre agli elettori il potere di far decadere dalla carica il deputato o senatore che si ritenga non si stia attenendo, nella sua attività parlamentare, al programma in base al quale è stato eletto.
A garantire il funzionamento di un tale (pseudo) sistema ci sarebbe la comunicazione digitale, con la facilità di rivolgersi agli elettori per conoscere il loro orientamento su singoli problemi: una favola degna di Cappuccetto Rosso. Vediamo, anche se brevemente, perché.
E’ innanzitutto da sottolineare che le riforme costituzionali proposte toccano solo uno degli aspetti del sistema costituzionale, quello relativo alla rappresentanza politica ed alle funzioni del Parlamento, senza tener presente gli effetti che l’adozione delle modifiche proposte produrrebbero sul resto del sistema. Tanto per fare un esempio, è chiaramente diverso l’impatto di un depotenziamento del Parlamento in uno Stato con poteri fortemente accentrati invece che in un vasto sistema di autonomie locali.
Introdurre il mandato imperativo non chiarisce a chi spetterebbe pronunciare la decadenza della carica, anche se si fa intendere che questo compito dovrebbe spettare al partito che ha presentato sotto il suo simbolo il candidato eletto agli elettori: ciò mentre non esiste alcuna regola a proposito della vita interna di partiti e movimenti, con capi che possono sempre mutare la linea politica, accusando magari di tradimento chi, una volta eletto, mostra di voler restare fedele al vecchio programma.
La faciloneria, per utilizzare un termine benevolo, di chi va sostenendo simili tesi emerge con ancor maggiore chiarezza quando si parla dell’uso di Internet per garantire la costante aderenza della linea politica dei rappresentanti politici a quella desiderata dai rappresentati su singole problematiche.
Ha chiarito nella sua relazione il Prof. Roncaglia che Internet è sistema troppo semplice per le esigenze di una società complessa quale quella di un Paese industrializzato: rispondere con un si o no ad una domanda è proporre una soluzione semplicistica a problemi complessi, che si risolvono analizzando solo analizzando una seri di possibili soluzioni, che vanno armonizzate e possibilmente attestate su un compromesso di interessi pubblici e privati che garantisce il più vasto consenso possibile.
Rispondere si o no ad un quesito, spesso volutamente poco comprensibile (e non mancano esempi in questo senso) significa radicalizzare la lotta politica, ghettizzare le minoranza, esaltare le contraddizioni, annullando la differenza che esiste tra il momento del voto in cui la volontà politica di ciascun elettore vale quanto quella di un altro elettore, ed il momento della decisione, in cui la volontà degli appartenenti alla maggioranza ha per definizione maggior valore di chi fa parte dell’opposizione.
Tutto questo non è certamente proposto a caso: si intravede dietro le modifiche costituzionali proposte la volontà di mantenere formalmente immutate le strutture fondanti della Repubblica per svuotarle di contenuto, avendo come punto di arrivo uno Stato populista-autoritario, molto simile al Peronismo argentino di triste memoria… Altro che Internet: sullo sfondo ci sono i nuovi caudilli.
Il disegno appare ancora più chiaro quando si consideri che la comunicazione digitale potrebbe offrire, se correttamente usata e non distorta per finalità che nulla hanno a che vedere con la democrazia, proprio per incentivare la partecipazione alla gestione della cosa pubblica, svolgendo in questo modo anche un importante ruolo da protagonista nell’educazione civica. Si pensi, ad esempio, a decisioni referendarie con validazione elettronica circoscritte a livello locale, riguardanti specifiche decisioni, come l’utilizzazione o meno di immobili dismessi per finalità sociali, o alla scelta di utilizzare una donazione ad un ente locale per borse di studio per giovani o per la creazione di un centro per anziani e così via.
Al di la di questa soglia sarebbe però difficile andare: l’esperienza fatta, ad esempio, sottoponendo a referendum la privatizzazione del servizio pubblico di trasporto a Roma, ha dimostrato lo scarso interesse dei cittadini verso forme di consultazione troppo semplicistiche in presenza di problemi complessi...