Lessness legge NKK - 01 - Il rovescio del regno (Vincenzo Montisano)
Jun 12, 2022 ·
8m 46s
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Description
Liberamente ispirato dalla visione di Satantangó, il capolavoro del regista ungherese Béla Tarr (tratto a sua volta dall'omonimo romanzo di Laszlo Krasznahorkai). Un racconto di Vincenzo Montisano che celebra la...
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Liberamente ispirato dalla visione di Satantangó, il capolavoro del regista ungherese Béla Tarr (tratto a sua volta dall'omonimo romanzo di Laszlo Krasznahorkai). Un racconto di Vincenzo Montisano che celebra la fine del sogno socialista. Un confronto etilico a due sulla resa. La nuova rubrica di Lessness, vedrà protagonisti gli autori (me compreso) del collettivo Nucleo Kubla Khan.
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***TRASCRIZIONE EPISODIO***
Incontrai l’oste in una fangosa landa della periferia ungherese. La sua sagoma stagliata contro un
orizzonte alto, come irraggiungibile, camminante e fiera, come dovrebbe essere quella di un uomo. Mi
sono perso, mi disse. Allora, nel gonfio vento moscovita che ululava da est, gli proposi di tornare insieme
verso la fattoria. E anche se lui tirava in direzione opposta, non parve preoccuparsene e mi seguì.
Dall’inflessione della voce capii che non era, il suo, uno smarrimento geografico. Infatti, quando tra le
altre, quasi tacendola, pronunciò la parola perdizione, fu come se si fosse reso conto di essersi tradito.
Ebbi l’impressione che un chiodo gli trapassasse la gola da parte a parte. Lampeggiò nei suoi occhi un
lucore di vergogna che presto, come mi confermò in seguito, s’era coagulata in un senso di colpa
profondo. Dove sta andando, gli domandai. Volevo raggiungere l’orizzonte, rispose.
Lungo la strada cominciò a piovere e ci rincagnammo nei nostri montoni. La terra si fece bavosa e ampi
specchi d’acqua, con dentro le forme del cielo, si plasmavano tra gli alberi, radiografati dalla luce ferrosa
del lungo crepuscolo. Prese a parlarmi della fattoria, di come fosse cresciuto, della sua gente: un nugolo
di uomini e donne belanti e meschini, giunti da Kaposvàr, Baja, da Vác, da Cheb e Debrecen, da ogni
angolo della regione, e che per trent’anni avevano lavorato qui, in questi campi, a sessanta verste da
Budapest, nel mezzo esatto del nulla spazializzato. Compagni sottochiave, al soldo taccagno del regime.
In cattività, nella rugginosa accidia corrosiva del bere, del mentire prima a se stessi. Mischiati alle bestie,
attaccati alla mammella del partito, ora vizza ed esautorata. Gente povera, resa ancora più piccola dalla tremenda risacca del socialismo che si ritirava, nell’arido solco della sconfitta storica. Mi raccontò di come allo stremo della loro resistenza fisica ed emotiva, l’intera comunità s’era fatta fregare la paga di un anno di lavoro – gli ultimi soldi imbandierati di rosso – da un ciarlatano con nome biblico, che aveva promesso loro che avrebbero rifondato una nuova, fiorente fattoria a sud, verso Pécs. Che di nuovo di latte si sarebbero
riempite le vacche, padroni del frutto del proprio lavoro sarebbero stati. Redenti finalmente dalla perenne aura di preda cacciata. Di ciò mi sentivo colpevole, aggiunse. Alla fattoria lo feci integrare io, Irimias, quindici anni fa. Poi sparì per più di trenta mesi. Tutti l’avevamo dato
per morto. Quando tornò disse che il socialismo mirava all’impoverimento morale, e che a fattor comune non era rimasto il lavoro, bensì il nostro dolore.
Nella loro miseria, continuò l’oste, in cui tutto era distruzione e rovina, quella promessa parve più ammaliante quanto più essi avevano coscienza di trovarsi alla congiuntura tra due epoche. Gli equilibri
del potere cambiavano, il mondo avvelenava e s’era comprato ogni cosa: a volte le loro anime con la forza bruta, altre il loro sudore con la persuasione subdola, altre ancora, con la dolcezza, la violenza delle loro mani. E perciò, come topi immemori del flagello delle promesse, avevano distrutto con rabbia le loro case, incendiato le stalle, disperso il bestiame, annientato la fattoria, e subito dopo avevano seguito il flautato imbonitore Irimias, resuscitato per salvarli, abbellito da due occhi color del capitale.
Col buio, giungemmo ai resti sprofondati nel fango della fattoria e l’oste mi condusse al suo locale. Si sedette e mi chiese di versargli da bere. Girai dietro il bancone e in tre ore vuotammo il fiasco della palinka. Perché il partito l’ha mandata qui, mi domandò infine l’oste. La convoca il sottosegretario Török, risposi, domani lo incontreremo all’ufficio per l’impiego della capitale. L’oste si rialzò, malfermo sulle ginocchia, e andò verso la porta. Non ho seguito Irimias, disse, non seguirò lei. Confesso che quando
realizzai che nella vita non avrei mai raggiunto quell’orizzonte, non me ne crucciai affatto. Invece, quando ho capito che quell’orizzonte, in realtà, non esisteva…
La meta sarebbe dovuta essere la libertà, ma ignoravo che prima bisognava perdersi.
L’oste uscì nella notte ammantata di scuro. Io rimasi dietro al bancone coi bicchieri vuoti davanti, le bottiglie alle spalle, come se da un momento all’altro sarebbero dovuti arrivare dei clienti.
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Incontrai l’oste in una fangosa landa della periferia ungherese. La sua sagoma stagliata contro un
orizzonte alto, come irraggiungibile, camminante e fiera, come dovrebbe essere quella di un uomo. Mi
sono perso, mi disse. Allora, nel gonfio vento moscovita che ululava da est, gli proposi di tornare insieme
verso la fattoria. E anche se lui tirava in direzione opposta, non parve preoccuparsene e mi seguì.
Dall’inflessione della voce capii che non era, il suo, uno smarrimento geografico. Infatti, quando tra le
altre, quasi tacendola, pronunciò la parola perdizione, fu come se si fosse reso conto di essersi tradito.
Ebbi l’impressione che un chiodo gli trapassasse la gola da parte a parte. Lampeggiò nei suoi occhi un
lucore di vergogna che presto, come mi confermò in seguito, s’era coagulata in un senso di colpa
profondo. Dove sta andando, gli domandai. Volevo raggiungere l’orizzonte, rispose.
Lungo la strada cominciò a piovere e ci rincagnammo nei nostri montoni. La terra si fece bavosa e ampi
specchi d’acqua, con dentro le forme del cielo, si plasmavano tra gli alberi, radiografati dalla luce ferrosa
del lungo crepuscolo. Prese a parlarmi della fattoria, di come fosse cresciuto, della sua gente: un nugolo
di uomini e donne belanti e meschini, giunti da Kaposvàr, Baja, da Vác, da Cheb e Debrecen, da ogni
angolo della regione, e che per trent’anni avevano lavorato qui, in questi campi, a sessanta verste da
Budapest, nel mezzo esatto del nulla spazializzato. Compagni sottochiave, al soldo taccagno del regime.
In cattività, nella rugginosa accidia corrosiva del bere, del mentire prima a se stessi. Mischiati alle bestie,
attaccati alla mammella del partito, ora vizza ed esautorata. Gente povera, resa ancora più piccola dalla tremenda risacca del socialismo che si ritirava, nell’arido solco della sconfitta storica. Mi raccontò di come allo stremo della loro resistenza fisica ed emotiva, l’intera comunità s’era fatta fregare la paga di un anno di lavoro – gli ultimi soldi imbandierati di rosso – da un ciarlatano con nome biblico, che aveva promesso loro che avrebbero rifondato una nuova, fiorente fattoria a sud, verso Pécs. Che di nuovo di latte si sarebbero
riempite le vacche, padroni del frutto del proprio lavoro sarebbero stati. Redenti finalmente dalla perenne aura di preda cacciata. Di ciò mi sentivo colpevole, aggiunse. Alla fattoria lo feci integrare io, Irimias, quindici anni fa. Poi sparì per più di trenta mesi. Tutti l’avevamo dato
per morto. Quando tornò disse che il socialismo mirava all’impoverimento morale, e che a fattor comune non era rimasto il lavoro, bensì il nostro dolore.
Nella loro miseria, continuò l’oste, in cui tutto era distruzione e rovina, quella promessa parve più ammaliante quanto più essi avevano coscienza di trovarsi alla congiuntura tra due epoche. Gli equilibri
del potere cambiavano, il mondo avvelenava e s’era comprato ogni cosa: a volte le loro anime con la forza bruta, altre il loro sudore con la persuasione subdola, altre ancora, con la dolcezza, la violenza delle loro mani. E perciò, come topi immemori del flagello delle promesse, avevano distrutto con rabbia le loro case, incendiato le stalle, disperso il bestiame, annientato la fattoria, e subito dopo avevano seguito il flautato imbonitore Irimias, resuscitato per salvarli, abbellito da due occhi color del capitale.
Col buio, giungemmo ai resti sprofondati nel fango della fattoria e l’oste mi condusse al suo locale. Si sedette e mi chiese di versargli da bere. Girai dietro il bancone e in tre ore vuotammo il fiasco della palinka. Perché il partito l’ha mandata qui, mi domandò infine l’oste. La convoca il sottosegretario Török, risposi, domani lo incontreremo all’ufficio per l’impiego della capitale. L’oste si rialzò, malfermo sulle ginocchia, e andò verso la porta. Non ho seguito Irimias, disse, non seguirò lei. Confesso che quando
realizzai che nella vita non avrei mai raggiunto quell’orizzonte, non me ne crucciai affatto. Invece, quando ho capito che quell’orizzonte, in realtà, non esisteva…
La meta sarebbe dovuta essere la libertà, ma ignoravo che prima bisognava perdersi.
L’oste uscì nella notte ammantata di scuro. Io rimasi dietro al bancone coi bicchieri vuoti davanti, le bottiglie alle spalle, come se da un momento all’altro sarebbero dovuti arrivare dei clienti.
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Author | Andrea Russo |
Organization | Andrea Russo |
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