È vero, questo film di Cronenberg, che riecheggia non solo le sue pellicole, ma l'intero coacervo magmatico culturale degli anni 90, rielabora quella prospettiva riconducendola ad oggi e lanciando un ponte verso un ipotetico futuro. Molti temi e stimoli (forse troppi?) si affastellano in CotF, ma è normale in una fase di smarrimento e nuova trasformazione. Tra tutti i livelli che il film suggerisce io ne ho sentiti pulsare o risuonare con me in maniera più intensa almeno tre. Il primo: l'anestetizzazione totale a cui siamo arrivati, già anticipata ed egregiamente descritta da David Foster Wallace, oggi ulteriormente rafforzata dell'ipertrofismo virtuale (tema due). L'eccesso e la dipendenza da intrattenimento è un rifugio (che consente di distrarsi dalla consapevolezza del dolore, del vuoto globale e privo di appigli in cui un sistema socio-politico-culturale ed economico fuori controllo ci ha abbandonato), ma anche una gabbia che ci impedisce l'elaborazione critica e, in maniera contraddittoria, ci spinge in direzioni divergenti. Da un lato la pulsione a crearci simulacri estetizzanti di esistenza (efficacemente riprodotta o suggerita attraverso la mise en abyme della performance dell’uomo-orecchie), dall’altro la ricerca di una ferita, di una incisione della carne, che sia in grado di farci sentire ancora vivi, dedigitalizzati, contingenti (tutte le ferite sostitutive del sesso, istinto vitale e riproduttivo per eccellenza). Questo è l’innesto del possibile secondo livello di interpretazione: una riflessione che, senza soluzione di continuità, riallaccia le elaborazioni sulla “nuova alienazione”, che erano tanto care alle avanguardie culturali dei movimenti cyberpunk degli anni 90, al parossismo raggiunto dal processo di virtualizzazione sociale e ai suoi fantasmi (oltre che ai suoi mostri).
A corredo di questi due, arriva il terzo tema del ruolo dell’arte, che fa da collante e memento.
L’arte sempre più mercato (oggi vieppiù virtuale, brodo di coltura della frontiera NFT), sempre più spettacolo, anche attraverso il pervertimento della sua direttrice democratica (tutti oggi possono e riproducono simil-arte, immagini, video, performance esibite in vetrine virtuali, media inclusi, che abdicano al proprio ruolo primario in una insensata, obnubilante corsa alla mistificazione collettiva e individuale). L’arte, dunque, perde la sua collocazione, spiazza, inganna, plastifica anche la plastica, che diventa così vincolo e nuova struttura, anche in senso marxiano, delle nostre neo-organizzazioni.
Se questo è realtà, l’unica via di superamento non può essere la fuga, ma la definizione di un nuovo paradigma, che non deve arrendersi all’esistente, ma consideralo un vincolo e un elemento di ripartenza. Occorre (è urgente!) ritrovare gli anticorpi a questa alienazione virtualizzata ed estetizzante senza negarla, ripristinando però la sensibilità al dolore, ritrovando le lacrime di Giovanna d’arco, per poter ricominciare a sperare di vivere e ricominciare metaforicamente a riprodursi e a esplorarsi carnalmente (quanto erotico è, anche nella sua sorpresa, quel bacio in cui si vedono le lingue di Mortensen e Stewart avvolgersi?).
Questo film è uno statement ottimista ed è straordinario che sia tanto lucidamente declinato da un uomo impegnato nella parabola discendente della sua stessa vita.